Currò 2006

CURRÒ SALVATORE, Decidersi per il dono. Su una traccia biblica: Elia e la vedova di Zarepta, Pazzini, 2006

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Presentazione

Questo libro si interroga sul dono tenendo conto della riflessione attuale su questo tema e soprattutto appoggiandosi a un racconto biblico interpretato nell’ottica del dono: l’incontro a Zarepta di Sidone tra Elia, profeta di Israele, e una donna pagana (1° libro dei Re 17, 7-16). Si tenta un’originale ermeneutica. La pagina biblica è accostata come una traccia da interpretare mentre la si percorre, mentre cioè ci si coinvolge radicalmente. Emerge così che il racconto sul dono o, più profondamente, il dono del racconto può essere compreso e accolto solo nella misura in cui ci si decide per il dono.

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Indice

INTRODUZIONE

1. UN RACCONTO DI DONO E IL DONO DI UN RACCONTO

Il testo nel contesto.

Il testo e l’evento.

2. SULLA TRACCIA DI UN DONO

La chiamata-risposta.

Il dilemma dell’accoglienza: dono o non dono? mi affido o non mi affido?

Il luogo del parlare di Dio: esposizione, affidamento e parola ispirata.

3. VIVERE NEL SEGNO DEL DONO

Il primato della decisione e del rispondere.

L’accoglienza, la sincerità del sé e il riceversi in dono.

La piccola bontà che trasgredisce e compie la legge.

Tutto è dono per colui che dona.

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Dall’Introduzione dell’Autore

Sul dono si può riflettere in tanti modi e a partire da esperienze, sensazioni e prospettive diverse. Ci si può concentrare su qualche aspetto della vita, o sulla vita tutta avvertita come dono; ci si può preoccupare di mostrare dov’è il dono o cos’è dono, e lo si può fare con toni ottimistici o di delusione; si può porre l’accento primariamente sul dovere di donare o sul diritto di ricevere un dono. La nostra riflessione – dico: la nostra, nella speranza di coinvolgere anche il lettore nel cammino – si concentra sul decidersi per il dono. Alla base c’è la suggestione che, perché eventualmente si apra una dimensione di dono della vita, occorre una decisione, la decisione coraggiosa di qualcuno – di me, di te, di un soggetto – che si arrischia a donare o, più radicalmente, a donarsi. Ciò avviene in modo molto concreto, dentro una rete relazionale, di fronte a qualcuno; non tanto qualcuno scelto da me ma quel qualcuno, quell’uomo o quella donna, che ha un preciso volto e un nome proprio e che bussa alla mia porta, mettendo radicalmente in questione la mia progettualità e la mia libertà. La questione del dono è dunque, prima di tutto, la questione del mio dono all’altro; è la messa in questione di me da parte dell’altro. È la questione del coraggio che un soggetto ha o non ha di rispondere a un appello, ovvero del potere che egli ha di chiudere o aprire, per gli altri e per sé, una corrente di generosità che forse attraversa la vita. Non che il dono sia produzione di un soggetto. Il dono infatti, se è davvero dono, è dato o donato al soggetto; viene da altro. Eppure esso non si dà senza il soggetto; sopraggiunge eventualmente quando un soggetto si decide, con coraggio.

Si tratta di una piccola decisione, o forse: di una grande decisione ma nella piccola trama della vita quotidiana. Questo modo di misurare il piccolo e il grande può sorprendere. E la nostra riflessione potrebbe dare la sensazione, a chi è abituato a riflettere secondo i mega orizzonti del sociale, del mondiale e del globale, di essere troppo concentrata sul privato. Non è così. L’ottica del coraggio del dono guarda alle grandi sfide che segnano la nostra società e l’umanità attuale; guarda ai grandi processi in atto: processi di pacificazione, di democratizzazione, di promozione della giustizia internazionale, di dialogo interreligioso… Tali processi sono sentiti ormai in un orizzonte detto di globalizzazione e sono tutt’altro che privi di ambiguità; sono anche processi che rischiano di divenire impersonali e, in ogni caso, non scontatamente centrati sulla dignità dell’uomo, e soprattutto: di ogni uomo. Dire decidersi per il dono significa contestare l’ottica stessa del politico, del globale, del generale, come ottica prima o privilegiata della soluzione dei problemi. Ma è una contestazione dall’interno. Ogni processo di vera umanizzazione infatti ha certo una sua forza nella logica che lo attraversa, e in particolare nella coerenza di questa stessa logica con i principi della dignità dell’uomo o con la carta dei diritti dell’uomo; ma la sua vera risorsa di umanità non risiede nella sua buona logica ma nella bontà di singoli che pagano di persona.

La decisione per il dono orienta a tener viva la vera risorsa di umanità a cui attinge ogni società che non voglia divenire disumana; aiuta a far fronte al pericolo di ideologia, latente in ogni processo sociale, politico, religioso e culturale, pur se – e a volte proprio perché – si dice di umanizzazione. La decisione per il dono ci fa vigili soprattutto nei confronti di noi stessi; è forte infatti la tentazione del rifugio nell’universale, nelle spiegazioni razionali, nelle ragioni sociali, politiche e religiose, in cui si cerca in definitiva giustificazione al proprio diritto, alla propria libertà, alla propria visione della vita, al proprio progetto… o semplicemente al proprio. E il proprio è forse proprio la negazione del dono. Eppure la concreta esperienza di ogni giorno sembra sfidare al coraggio del dono. In qualche esperienza emerge un appello che la coscienza fatica a tacitare, pur se tante volte ci riesce; un appello che quando trova spazio sembra contestare il proprio diritto, talvolta persino il proprio diritto all’esistenza. Rispondere all’appello, e cioè trovare il coraggio di decidersi per il dono, significa forse ingresso vero nell’umano. Significa liberarsi dal rischio dei giochi ideologici della coscienza, che a volte può difendere egoismi e paure del soggetto, ponendoli sotto il manto di principi sedicenti umani. Liberarsi dal rischio? È il soggetto che si libera? La sensazione a volte è che in realtà è l’altro che libera. L’altro, da cui veniva l’appello, è avvertito misteriosamente come dono. Egli, anche senza saperlo e volerlo, mi aiuta a ritrovare me stesso, forse anche a sentire la mia vita come dono o a guardare più positivamente alla vita tutta, che mi appare improvvisamente nella luce del dono. E tutto avviene nell’ordinarietà di una relazione o, più radicalmente, nel segreto di un soggetto che può decidersi o non decidersi. E la decisione, che pure coinvolge pienamente il soggetto, si dà come risposta all’altro, ad altro; è decisione non come frutto di riflessione, ma decisione che quasi anticipa la coscienza. Decisione di coraggio. E decisione segreta: all’insaputa di tutti, nel segreto. E quanto più rimane all’insaputa degli altri, e forse anche della propria coscienza, tanto più è umana, davvero dono, davvero apertura sul dono.

Ma se la questione del dono è questione di coraggio o di una decisione quasi al di là di ogni riflettere e di ogni presa di coscienza, proporre una riflessione sul dono è contraddittorio; e ancor più contraddittorio se ha come titolo: decidersi per il dono. Il titolo evoca una decisione – che rompe col primato del pensare – ma, in quanto titolo di una riflessione sulla decisione per il dono, col suo stesso porsi smentisce il primato e della decisione e del dono. Eppure sentiamo che non ci si può rassegnare al silenzio. La decisione per il dono, che pure rompe col pensiero, ha bisogno del pensiero. Il dono, che è dono anche per il pensiero e che quindi non è alla portata del pensiero, ha bisogno però di entrare nel pensiero. È il paradosso del linguaggio, chiamato a dire l’impossibile a dirsi, chiamato a dire più di quello che può dire[1]. Eppure l’impossibilità a dire il dono è, positivamente, dono per il linguaggio: è la possibilità di un linguaggio più radicato nella responsabilità per il dono, linguaggio impregnato di decisione e di dono. È la possibilità di un linguaggio non preoccupato di precisare cos’è dono o di trovare il senso del dono all’interno di un sistema; ma un linguaggio che orienta, che si interrompe, che si sospende, che semplicemente introduce, che si lascia smentire, che rinvia ad altro da sé; linguaggio che sa farsi silenzio, ascolto, accoglienza. Ma la necessità di dire il dono viene anche forse da un dono ricevuto; è necessità di tener viva la memoria, perché il decidersi per il dono si nutre della memoria del dono. D’altra parte: l’incapacità di accoglienza dell’altro, da parte di un soggetto che si autopone rivendicando il primato della sua libertà, non è forse anche incapacità di sentirsi radicati? non è dimenticanza che la propria libertà o il proprio diritto o lo stesso porsi come soggetto è già grazie ad altro, già in seconda battuta rispetto a un già dato o un già donato?

La questione del dono è dunque anche questione di memoria. Il decidersi per il dono implica, e produce allo stesso tempo, il tener viva la memoria. È per questo che ho scelto di situare la riflessione sul dono su una memoria, su una testimonianza di dono, su un racconto di dono; o, forse dovremo dire, sul dono di un racconto. Il racconto in questione è riportato dalla Bibbia (1 Re 17, 7-16) e ci è consegnato dalla tradizione ebraico-cristiana: è l’incontro (incontro? Questa parola si rivelerà forse povera!) tra il profeta Elia e la vedova di Zarepta. Non sarà importante prima di tutto determinare cosa dice esattamente il racconto o che cosa è davvero avvenuto; e nemmeno interpretare il testo all’interno del più globale messaggio biblico o in rapporto al pensiero religioso ebraico e cristiano. Se pure queste attenzioni dovranno entrare in gioco (partiremo proprio da queste), esse dovranno pure essere sospese per lasciare spazio a ciò che è decisivo[2]. Il testo della Scrittura è una traccia di dono, porta con sé un segreto indicibile, un segreto che si presta ad una ermeneutica infinita e che ad essa allo stesso tempo resiste. È il segreto di un dono, un segreto che è dono. E l’accesso al segreto è al di là dell’ermeneutica – eppure nel cuore dell’ermeneutica – e cioè: nel segreto della decisione per il dono. Un segreto, se è davvero tale, rimane segreto. La tradizione – che pure testimonia, spiega, interpreta – nel suo significato più radicale è la consegna di un segreto[3].

Il nostro riflettere sul dono allora, consapevole di dire – e di dover dire – un segreto, dovrà rinviare incessantemente e alla memoria del dono e alla decisione per il dono. È in questo duplice rinvio che si gioca l’interpretazione della traccia, che ci accingiamo ad accostare o – dovremmo dire più esattamente – su cui poniamo i nostri passi.

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Note

[1] Che la questione del dono mette a soqquadro il linguaggio, è stato messo bene in luce da J. Derrida, soprattutto in Donare il tempo. La moneta falsa, tr. di G. Berto, Cortina, Milano, 1996.

[2] Decisivo e decidersi sono due parole imparentate.

[3] Cf. la riflessione di Derrida, che, a partire dall’espressione: «Perdono per non voler dire…», spiega il senso profondo della letteratura in rapporto alla tradizione biblica, come impossibilità di trasmettere un segreto e come continua richiesta di perdono per il tradimento. Questa frase («Perdono per non voler dire…») – afferma Derrida – «annuncia la letteratura», «per lo meno ciò che da alcuni secoli chiamiamo letteratura, ciò che si chiama letteratura in Europa, ma in una tradizione che non può non essere erede della Bibbia, poiché vi attinge il suo senso del perdono ma al contempo le chiede perdono del tradimento» (Donare la morte, intr. di S. Petrosino, postf. di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano, 1996, 2002, 160).